“Il più grande furto della storia”, l’ha definito Anuradha Seth, economista delle Nazioni Unite, in un’intervista all’agenzia di stampa spagnola Efe.
A livello globale le donne sono pagate il 23% in meno degli uomini, e non c’è un singolo Paese né un solo settore in cui gli stipendi degli uomini e delle donne siano uguali.
Il divario salariale è il risultato di vari fattori, primo fra tutti il tasso di occupazione: nel mondo lavora solo il 49,6% delle donne, contro il 76,3% degli uomini. A questo si deve aggiungere che le donne lavorano meno ore retribuite e lo fanno in settori con salari più bassi. Ma guadagnano di meno anche quando fanno lo stesso lavoro. Per ogni dollaro guadagnato da un uomo, una donna guadagna 77 centesimi. La differenza si accentua con l’età e con i figli: ad ogni figlio che nasce, lo stipendio delle donne si riduce in media del 4% mentre quello degli uomini aumenta del 6%. La situazione cambia molto da un Paese all’altro, ed è importante tenerne conto, sapendo però che i confronti sono spesso complicati e che i dati possono variare anche in funzione della fonte e del metodo di raccolta. Si va da Paesi con una differenza salariale minima, come il Costa Rica e il Lussemburgo (5%), a Paesi dove lo scarto arriva al 36% come la Corea del Sud.
“Alle donne viene sottratto qualcosa di proprio, che appartiene solo a loro”, ha scritto Bia Sarasini sul Manifesto. Ma non nel senso di una proprietà, di una eredità o di altre forme di ricchezza: “Alle donne viene tolto quello che appartiene anche a chi non possiede nulla: il frutto della propria capacità di lavoro”. Se si continua così, avvertono le Nazioni Unite, ci vorranno settant’anni per raggiungere la parità salariale.
A meno di non seguire l’esempio dell’Islanda, dove dal 1 gennaio è diventato illegale dare a una donna, a parità di esperienza e di competenze con un uomo, uno stipendio più basso.
Giovanni De Mauro
COMMENTO
Giovanni De Mauro è il direttore di INTERNAZIONALE, una rivista che suggerisco sempre a chi segue la Scuola di Formazione Politica e piazzadivittorio.
Una formazione di sinistra si riconosce per quanto si impegna a fare e, soprattutto, per quanto ha fatto per ridurre la forbice sociale, cioè la differenza di ricchezza tra i più ricchi e i più poveri. Questo è il punto di partenza per creare una società di eguali. All’interno di questa battaglia fondamentale ve ne sono altre che vanno perseguite. Quella della parità tra uomo e donna è la più importante e, anche in questo caso, parte dal dato strutturale, la parità di retribuzione.
Da questo punto di vista, l’Italia non è messa bene.
Secondo un rapporto del World Economic Forum, il “Global Gender Gap Index 2017” (rapporto sul divario di genere 2017) il nostro Paese è in 82esima posizione su 144 Paesi presi in esame in fatto di uguaglianza di genere. La situazione è peggiorata: nel 2016 eravamo al 50esimo posto e nel 2015 eravamo al 41esimo (abbiamo perduto 41 posizioni negli ultimi 3 anni).
Se poi si fa riferimento alla parità salariale, l’Italia precipita al 126esimo posto (sempre su 144). In termini di parità di reddito siamo al 90esimo posto.
Sul fronte dell’occupazione femminile, a giugno 2017, la situazione è leggermente migliorata rispetto alla tabella riportata sotto; ma l’Italia, con il suo 48,2% di occupazione delle donne in età lavorativa (15-64 anni), è penultima tra i 28 Paesi dell’Unione Europea in cui la media è del 61,6%.
Come si vede, il tasso di disoccupazione femminile è di oltre 18 punti più alto di quello maschile. Inoltre il 60,5% degli scoraggiati, cioè quelli che non cercano neppure un lavoro, sono donne.
di Angelino RIGGIO