LA GUERRA DEL LAVORO: 5 morti al giorno dall’inizio dell’anno.

Ci sono cose a cui ci siamo assuefatti anche se sono orribili come i milioni di bambini morti per fame e le centinaia di migliaia di donne che muoiono di parto nel mondo più povero, i mutamenti climatici, le guerre endemiche, le centinaia di migliaia di persone che muoiono nelle migrazioni. Bisogna recuperare empatia verso gli altri e capacità di indignarsi.

Non è solo un problema morale, il che non sarebbe poco in una cultura del presente che vuole pensare solo al qui e ora.

È un problema politico.

Una questione imprescindibile è quella del lavoro. Questa emerge come un fiume carsico quando ci sono incidenti mortali che non possono essere ignorati dagli organi di informazione. L’occasione di recente è stata la morte di due operai a Treviglio, nel Bergamasco, che sono stati investiti dallo scoppio di un serbatoio. Ora che i riflettori sono puntati sulla vicenda, si scopre che nella stessa azienda vent’anni fa si era verificato un grave incidente. Si scopre inoltre che i morti per lavoro nei primi tre mesi del 2018 sono stati già 151. Si scopre che sono in crescita del 12%. Si scopre che dal 2008 ad oggi ci sono stati 13.100 uccisi.

È una guerra.

E, come in tutte le guerre è giusto contabilizzare non solo i morti ma anche i feriti, gli invalidi, le famiglie impoverite e devastate, le malattie che modificano la vita delle persone e che le inducono a una pessima esistenza e a una precoce e dolorosa morte. Un dato per tutti: 635.000 denunce di infortunio nel 2017, oltre sei milioni in dieci anni, quasi un quarto degli occupati: e non si tratta di eccessiva litigiosità o pretestuosità dei ricorsi perché la percentuale di riconoscimento è altissima. Depurando il dato dalle domande respinte, si parla di quasi quattro lavoratori su dieci soggetti a infortuni e malattie sul lavoro.

Ripeto: è una guerra.

Ma, in una società della comunicazione, si può oscurare tutto.

Il caso più eclatante è stato quello della cosiddetta “guerra dimenticata” tra Iraq e Iran (1980-1988) di cui la Stampa occidentale non parlò quasi per nulla. Quella guerra, voluta dagli USA che finanziarono in modo indecente Saddam Hussein allora loro alleato, costò oltre mezzo milione di morti (CINQUECENTOMILA PERSONE, che avevano visi e sorrisi come i nostri figli).

Senza andare lontano, in termini di nascondimento mediatico, pensiamo, nel nostro piccolo, al numero di morti per incidenti stradali (con tutto quello che ne segue: feriti, invalidi, danni economici, famiglie distrutte…), di cui si tace malgrado i numeri incredibili (quasi 3.000 morti l’anno) per insistere su un modello di sviluppo irrazionale come il trasporto individuale che fa molto bene alla Case Automobilistiche.

Tornando alle vittime del lavoro e all’oscuramento delle notizie, proviamo a fare un esercizio. Leggiamo con attenzione le notizie su un archivio limitato (diciamo gli ultimi tre mesi) dei giornali. Io sono un discreto lettore di quotidiani eppure sommando le vittime degli incidenti sul lavoro riportate nelle prime pagine non si arriva a 15.

Ma i morti in tre mesi sono stati 151.

Vuol dire che almeno 140 vittime sul lavoro sono state ignorate, occultate.

Che la stampa faccia questo è comprensibile. La logica della notizia che fa lettori è quella delle tre ESSE: Sesso, Sport, Sangue. Per quest’ultimo però il sangue operaio non è molto gradito ai proprietari dei giornali che appartengono a un gruppo sociale che non è mai stato vittima di un incidente sul lavoro (semmai ne è, o ne è stato, responsabile).

Quello che non è accettabile è che l’argomento non sia costantemente sollevato dalle forze di sinistra (con interviste, interrogazioni, interpellanze, manifestazioni, conferenze, convegni, proposte di legge, ecc.)

C’è una guerra tra capitale e lavoro: l’ha detto Marx (attualissimo anche se tra un mese cade il secondo centenario della nascita).

È una guerra che ha conosciuto un momento molto alto per i lavoratori dopo il ’68 con lo Statuto dei Lavoratori. Dagli anni ’80 è però in atto una controffensiva padronale, ricordata nell’articolo sul metodo UBER, che in Italia ha avuto il suo avvio con la marcia dei Quarantamila e con il Referendum sulla Scala Mobile. Berlinguer lo capì e fece una battaglia disperata per il valore simbolico di quei momenti. Fu lasciato (quasi) solo perché era già incominciato un processo di allontanamento del partito di sinistra dalla sua base sociale (i lavoratori) con la degenerazione che ha raggiunto il momento più indecente col Renzismo.

Oggi, tra moltiplicazione dei contratti, jobs act, eliminazione dell’art.18, polverizzazione dei lavoratori, moltiplicazione dei “lavoretti”, la capacità contrattuale dei lavoratori è ridotta al minimo: la guerra tra capitale e lavoro si sta perdendo.

E, come in ogni guerra, si contano i morti: cinque persone, cinque famiglie distrutte dalla morte sul lavoro ogni giorno. Come se non bastasse, la spending review non è mai stata fatta sul serio nel senso di ottimizzazione delle risorse per il massimo dell’efficacia e quindi si è trasformata in una serie di tagli lineari. Che, per quello che riguarda i controllori della sicurezza del lavoro, si sono trasformati in una carenza numerica. Gli operatori sono troppo pochi per fare adeguati controlli. Succede anzi che la legislazione sulla sicurezza, una delle più avanzate in Europa, proprio perché è così avanzata sulla carta ma senza braccia operative diventa terreno fecondo per rapporti oscuri tra controllori e controllati. Ed è più facile perseguire questi accordi o rischiare improbabili controlli che spendere in sicurezza e, con questi indecenti risparmi, essere più concorrenziali: questo il modo di pensare dei padroni, non tutti per fortuna.

Questa logica non deve passare.

Anche un solo morto sul lavoro, è uno di troppo.

Una riorganizzazione della sinistra deve ripartire da una tutela quotidiana e inflessibile della vita dei lavoratori, mettendo a disposizione schiere di esperti, sindacalisti, legislatori, avvocati, amministratori locali, associazioni di volontariato, politici, un enorme patrimonio costruito in anni di impegno, studi, scioperi, manifestazioni, lotte, morti, torture (patrimonio che non può e non deve essere rottamato dal primo venditore di pentole).

Non a caso, la nostra Costituzione (ahi, dov’è la cultura dei nostri Padri Costituenti!) dice che “L’Italia è una Repubblica Fondata sul lavoro”.

 Se il lavoro è precario, è precario tutto: lo Stato, la Democrazia, la sicurezza del reddito, la possibilità di comprare un’auto, contrarre un mutuo, sposarsi, fare un figlio.

È precaria la vita: fuori e dentro il posto di lavoro.

di Angelino RIGGIO

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