Duecento anni fa nasceva Karl Marx. Il suo pensiero filosofico, economico, politico ha influenzato da allora l’umanità.
Trasformarlo in un classico o in un monumento è il torto peggiore che gli si potrebbe fare. Marx è vivo e attuale. Lo sanno bene gli economisti che, più o meno velatamente, sono costretti a ricorrere alle sue analisi. Marx è vivo: il comunismo, come lo aveva espresso lui, non era una ideologia ma il procedere continuo del proletariato verso la sua liberazione. Per sottolineare la sua attualità abbiamo scelto di riportare alcuni brani della sua opera più famosa: IL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA che scrisse con Federico Engels nel 1848.
Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si alleano per una santa caccia spietata a questo spettro: il papa e lo zar, Metternich e Guizot, i radicali francesi e i poliziotti tedeschi.
La storia di tutta la società, svoltasi fin qui, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, maestri delle corporazioni e garzoni, in una parola, oppressi ed oppressori sono stati continuamente in contrasto tra loro, e hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte palese a volte dissimulata; una lotta che è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la totale rovina delle classi in lotta.
Questa moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha distrutto le opposizioni di classe. Essa ha soltanto introdotto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, sostituendole alle antiche.
La borghesia ha avuto nella storia una parte essenzialmente rivoluzionaria. Dovunque è arrivata al potere, ha distrutto le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha distrutto senza pietà tutti quei legami multicolori che nel regime feudale stringevano gli uomini ai loro naturali superiori, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo al di fuori del nudo interesse e dello spietato pagamento in contanti. Essa ha spento i santi timori dell’estasi religiosa, l’entusiasmo cavalleresco, la sentimentalità del piccolo borghese dalle limitate abitudini, immergendo tutto nell’acqua gelida del calcolo egoistico. Ha trasformato la dignità personale in un semplice valore di scambio; e alle molte e varie libertà bene acquisite e consacrate in documenti, essa ha sostituito la sola ed unica libertà del commercio, di dura e spietata coscienza. In una parola, al posto dello sfruttamento velato di illusioni religiose e politiche, essa ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e brutale.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti della produzione, il che vuol dire i modi e i rapporti della produzione, ossia, in ultima analisi, tutto l’insieme dei rapporti sociali. L’immutata conservazione dell’antico modo di produzione era la prima condizione di esistenza delle vecchie classi industriali. Questo continuo sovvertimento della produzione, questo ininterrotto scuotimento delle condizioni sociali, questo moto perpetuo, con l’insicurezza costante che l’accompagna, contraddistingue l’epoca borghese da tutte le altre che la precedettero.
Sfruttando il mercato mondiale, la borghesia ha reso cosmopolite la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere di tutti i reazionari, essa ha tolto all’industria il suo carattere nazionale. Le antiche ed antichissime industrie nazionali furono, o sono, di giorno in giorno distrutte; esse vengono sostituite da industrie nuove, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili; le nuove industrie non impiegano più le materie prime indigene, ma quelle provenienti dalle zone più remote, e i cui prodotti si consumano non soltanto nel paese stesso, ma in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano un tempo i prodotti nazionali, ne succedono ora dei nuovi che esigono i prodotti dei climi e paesi più remoti. Al posto dell’isolamento locale e nazionale, per cui ciascun paese si accontentava di sé stesso, subentra un commercio universale, per cui le nazioni entrano in una condizione di interdipendenza. E come per i prodotti materiali, così accade anche per quelli intellettuali. I prodotti intellettuali di ogni singola nazione divengono proprietà comune di tutte.
A causa del rapido perfezionamento di tutti gli strumenti della produzione e delle comunicazioni divenute infinitamente più facili, la borghesia trascina per forza nella corrente della civiltà anche le nazioni più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi e con cui ha fatto capitolare i barbari più induriti nell’odio contro lo straniero; essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono morire, e le costringe a ricevere ciò che chiama civilizzazione, ossia a farsi borghesi. A dirla in una sola espressione, crea un mondo a propria immagine e somiglianza. La borghesia ha fatto della città la signora assoluta della campagna. Ha creato città enormi; a confronto della popolazione rurale ha fortemente accresciuto la popolazione urbana.
Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui portata colossale superano tutto quello che hanno fatto le generazioni passate. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, il telegrafo elettrico, la messa a coltura di interi continenti, i fiumi resi navigabili, popolazioni intere sorte quasi miracolosamente dal suolo: ma quale dei secoli passati avrebbe mai presentito che tali forze produttive giacessero latenti in seno al lavoro sociale?
La moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si scopre impotente a dominare le potenze sotterranee da lui stesso evocate. Già da qualche decennio la storia dell’industria e del commercio è ridotta ad essere la storia della ribellione delle forze moderne di produzione contro i rapporti moderni di produzione, ossia contro i rapporti moderni di proprietà, che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, le quali, per il fatto di ripetersi periodicamente, mettono in forse sempre più minacciosamente l’esistenza di tutta la società borghese. Ogni crisi distrugge regolarmente non solo una gran fetta di prodotti, ma molte di quelle forze produttive che erano state create. Un’epidemia, che in ogni altra epoca storica sarebbe parsa un controsenso, un’epidemia nuova si rivela nelle crisi, ed è quella della sovrapproduzione.
Con quali mezzi riesce la borghesia a vincere le crisi? Da un lato, distruggendo, a seconda delle circostanze, una grande quantità di forze produttive; dall’altro, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente quelli già esistenti. Con quali mezzi dunque? Preparando nuove, più estese e più formidabili crisi, e riducendo i mezzi per ovviare a quelle future.
Ma la borghesia non ha soltanto preparato le armi, che le recheranno la morte; essa ha anche prodotto gli uomini, che useranno quelle stesse armi, cioè gli operai moderni, i proletari. Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, ossia il capitale, si sviluppa anche il proletariato, ossia la classe degli operai moderni, i quali vivono fintanto che trovano lavoro, e trovano lavoro fintanto che il loro lavoro accresce il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi giorno per giorno, non sono se non una merce come tutte le altre, una merce soggetta a tutte le vicende della concorrenza, e a tutte le fluttuazioni del mercato. Con l’estendersi dell’uso delle macchine, e per effetto della divisione del lavoro, l’attività dell’operaio ha perso ogni carattere di indipendenza, e perciò ogni attrattiva. L’operaio diventa un semplice accessorio della macchina, a cui non si chiede altro se non la più semplice e monotona operazione, la quale del resto si apprende in assai breve tempo. Il costo dell’operaio si limita di conseguenza ai semplici mezzi di sussistenza necessari per vivere e per riprodursi. Si sa che il prezzo d’ogni merce, compreso il prezzo del lavoro, è uguale al costo di produzione; e perciò nella misura in cui il lavoro si fa più ripugnante, il salario diminuisce.
Non appena l’operaio abbia finito di subire lo sfruttamento del fabbricante ed abbia toccato il salario in contanti, eccolo diventare subito preda degli altri membri della borghesia, il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno.
Quelle che sono state fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietari, finiscono per scendere al livello del proletariato; in parte perché il piccolo capitale di cui dispongono non è sufficiente all’esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi grandi capitalisti; e in parte perché le loro attitudini e abitudini tecniche perdono di valore in confronto coi nuovi metodi di produzione. Così il proletariato si va reclutando in tutte le classi della popolazione.
Per la concorrenza che cresce fra i borghesi, e per le crisi del commercio che da ciò derivano, il salario degli operai diventa sempre più incerto; l’incessante miglioramento delle macchine, che diviene sempre più rapido, rende sempre più precaria tutta la condizione di vita dell’operaio; i conflitti fra operai e singoli borghesi vanno sempre più assumendo i caratteri della collisione fra due classi. Ed è così che gli operai cominciano a coalizzarsi contro i borghesi, riunendosi per difendere i loro salari. Essi fondano perfino delle associazioni permanenti, per rifornirsi dei mezzi di esistenza necessari in vista di eventuali lotte.
L’organizzazione del proletariato in classe, e quindi in partito politico, è continuamente spezzata dalla concorrenza degli operai fra loro stessi; ma essa risorge sempre e di nuovo, più poderosa e più compatta.
Tutte le classi, che fino ad ora si sono impossessate del potere, hanno sempre cercato di consolidare la posizione raggiunta, assoggettando tutta la società alle condizioni del loro particolare modo di acquisizione. I proletari, invece, possono impossessarsi delle forze produttive sociali solo abolendo l’attuale modo di appropriazione e profitto, ossia abolendo tutto l’attuale sistema di appropriazione.
Qual è la relazione tra i comunisti e i proletari in generale? I comunisti non costituiscono un partito a sé di fronte agli altri partiti operai. Essi non hanno interessi propri, distinti da quelli del proletariato nel suo insieme. Non stabiliscono dei principi a parte, sui quali vogliono poi modellare il movimento proletario. I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che essi, da un lato, date le differenti lotte nazionali dei proletari, mettono in rilievo e fanno valere i comuni interessi del proletariato nel suo insieme, interessi che sono appunto indipendenti dalla nazionalità; e dall’altro lato, nelle diverse fasi di sviluppo che la lotta fra il proletariato e la borghesia attraversa, essi rappresentano costantemente l’interesse del movimento complessivo. In questo senso i comunisti possono riassumere la loro dottrina in questa unica espressione: abolizione della proprietà privata.
Voi (capitalisti) raccapricciate all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà fu già abolita per nove decimi dei suoi membri: e la proprietà esiste solo in quanto non esiste per quei nove decimi. Voi ci rimproverate, insomma, di voler abolire la vostra proprietà. Senza dubbio, e certamente, noi vogliamo questo.
Il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie solo la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire il lavoro altrui.
È stato obiettato che, abolita la proprietà privata, cesserebbe ogni impulso di attività e nel mondo si diffonderebbe una generale inerzia. Se questo ragionamento reggesse, la società borghese già da un pezzo avrebbe dovuto andare in rovina per effetto dell’indolenza, poiché quelli che in essa lavorano non guadagnano, e quelli che in essa guadagnano non lavorano.
Voi ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei fanciulli da parte dei genitori? Noi questo delitto lo confessiamo volentieri.
la prima tappa della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato si elevi a classe dominante, ossia nel raggiungere vittoriosamente la democrazia.
I proletari non hanno da perdere che le loro catene. Hanno da guadagnarci tutto un mondo. PROLETARI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!
(proposto da Angelino RIGGIO)