L’ESTREMA DESTRA CONQUISTA IL BRASILE.

Jair Bolsonaro, l’ex capitano dell’Esercito, è il nuovo presidente del Brasile.  Ha vinto con il 55,29 per cento dei voti. Il suo slogan è stato «Il Brasile prima di tutto, Dio su tutti», una nuova versione del «Dio, patria e famiglia» caro ai regimi militari degli Anni Settanta. Fernando Haddad del Pt si è fermato al 44,71 per cento: nonostante il recupero, non è riuscito nella difficilissima impresa di rimontare il divario di 18 milioni di voti di differenza del primo turno.

Dopo 13 anni di sinistra, con il voto di ieri in Brasile adesso domina la destra. Una destra estrema, populista, razzista. Nella lista dei nemici dichiarati di Bolsonaro ci sono i contadini senza terra, i sindacati, gli organismi in difesa dei diritti umani, gli agenti statali che vigilano sulla preservazione dell’Amazzonia. In seconda battuta i giornalisti d’inchiesta, i professori universitari e gli artisti vicini al Pt. La sua roccaforte risiede invece nelle potenti lobby delle chiese evangeliche, dei produttori di armi, dei militari e dei grandi latifondisti e allevatori.

Il compiacimento di Salvini non si è fatto attendere: “Anche in Brasile i cittadini hanno mandato a casa la sinistra! Buon lavoro al presidente Bolsonaro, l’amicizia tra i nostri popoli e i nostri governi sarà ancora più forte”.

Ci sembra utile riproporre le considerazioni fatte nell’articolo del 9 ottobre scorso.

 

 

L’ESTREMA DESTRA ALLA CONQUISTA DEL BRASILE.

9 ottobre 2018

Domenica 7 ottobre si è svolto il primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile. Jair Bolsonaro, 67 anni e candidato della estrema destra, ha ottenuto il 46% dei voti. Fernando Haddad del Partito dei Lavoratori si è fermato al 29,3%. La rimonta da adesso fino al 28 ottobre, data del ballottaggio, è molto difficile.

Il Paese più grande, più popoloso ed economicamente più forte dell’America Latina si prepara ad avere un Presidente dalle caratteristiche inquietanti.

Bolsonaro ha costruito la sua fama con una tattica che l’estrema destra sta usando con successo in tutto il mondo: provocazione, violenza verbale e avversione per il ragionamento. Così Bolsonaro, ex capitano dell’esercito, non perde occasione di difendere la dittatura militare brasiliana che durò dal 1964 al 1985. La definisce con enfasi “un periodo glorioso”. L’unico errore della dittatura, dice, è stato quello di torturare invece di uccidere gli oppositori politici di sinistra. Nel suo ufficio di Brasilia sono appesi i ritratti dei presidenti della dittatura: Lui li chiama “i miei guru” e considera la democrazia “una porcheria”.

L’influente apparato militare, che grazie a un’amnistia non ha mai pagato per i crimini commessi, lo corteggia. Ha fatto stampare per la propaganda elettorale magliette che lo raffigurano con giubbotto di pelle e fucile d’assalto: “bisogna fare pulizia” dice. Immagina una società dove al comando ci sono solo uomini, eterosessuali e bianchi. Sugli omosessuali ha detto: “Non potrei mai amare un figlio omosessuale. Preferirei morisse in un incidente”. A proposito degli ex schiavi (che continuano ad essere la parte più povera della popolazione) ha detto: “Il discendente africano più leggero pesa sette arrobas (unità di misura un tempo usata per pesare gli schiavi). Non combinano nulla. Non sono nemmeno buoni a riprodursi”. In Parlamento, rivolgendosi a una deputata, le ha detto: “Non ti stupro perché non te lo meriti”. Sugli indigeni: “Non destineremo più neanche un centimetro di terra alle riserve”. Sugli immigrati: “Haitiani, bengalesi, boliviani, tutta la feccia del mondo viene da noi, e ora ci si mettono anche i siriani”.

Come è potuto accadere che un uomo così stia per diventare il Presidente del Brasile?

Poco più di dieci anni fa c’era un termine che indicava i Paesi che stavano emergendo come nuove potenze economiche mondiali: BRICS, dalle iniziali di quegli Stati (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Il Brasile faceva parte di questo club grazie all’opera di Lucio Ignacio Lula da Silva, ex operaio metalmeccanico e segretario del Partito del Lavoratori, che nel 2002 fu eletto Presidente.

Il suo governo realizzò politiche sociali di ampio respiro come la Bolsa familia, un sussidio per i genitori che mandavano i figli a scuola. Nei dieci anni del suo mandato l’economia era cresciuta con un tasso del 4% l’anno, erano stati eliminati i debiti con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), il salario minimo era aumentato in maniera costante ed erano stati creati milioni di posti di lavoro. Tutto questo era stato possibile grazie all’utilizzo intelligente delle enormi risorse del Brasile che in passato erano state oggetto di rapina straniera grazie a un indebitamento causato dalle dittature militari foraggiate dagli USA. Le esportazioni di soia, zucchero, caffè, arance, ferro, petrolio hanno fatto decollare l’economia brasiliana con un vero boom del mercato interno.

Dilma Roussef che succedette a Lula non fu però in grado di consolidare questi risultati. Soprattutto non affrontò il punto debole di questa crescita economica: la dipendenza dall’esportazione e la fragilità del sistema produttivo e infrastrutturale del Paese. Per di più neanche il governo della sinistra era riuscito a superare l’abisso sociale tra ricchi e bianchi da un lato e poveri e neri dall’altro. Ancora più grave di tutto questo è stata la diffusione di un sistema corruttivo che già affliggeva il Paese e che ha contagiato il Partito dei Lavoratori. La gente ha visto con indignazione crescere le ricchezze di affaristi e politici mentre la crisi mordeva salari, posti di lavoro, servizi.

È vero che le indagini sulla corruzione sono state condotte a senso unico, salvando gli esponenti di destra. È vero che l’arresto di Dilma Roussef è stato pretestuoso e quindi è stato revocato. È vero che l’arresto dello stesso Lula è stato fatto al solo scopo di impedirgli di candidarsi alla Presidenza (diversamente la sua vittoria sarebbe stata certa). È vero che il bisogno di sicurezza spinge verso destra (in Brasile avvengono più omicidi e crimini che in ogni parte del mondo). È altrettanto vero che sul Brasile è scesa di nuovo pesante la mano degli USA (di Trump) che, partendo dal Brasile, vuole impedire alla Cina di penetrare economicamente nell’America Latina.

Tutto questo è vero.

Ma è certo che la sinistra deve attrezzarsi per tenere alla larga i corrotti e i carrieristi e ancora unire allo slancio ideale una solida base culturale (per far crescere la coscienza critica) a tutti i livelli e in ogni campo soprattutto in economia.

Diversamente le resta solo l’impotenza di fronte ai nemici della democrazia che sembra debbano la loro vittoria solo a una migliore capacità comunicativa o al saper parlare “alla pancia del Paese” o  a “fare leva sulla paura”.

di Angelino RIGGIO

 

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