Trauma è una delle parole più diffuse, forse anche tra le più abusate degli ultimi tempi. La storia della sua parola, dal greco, vuol dire ferita. E di ferite ce ne sono tante nella vita di ognuno, ma non tutto ciò che ci ha ferito, fatto soffrire è definibile scientificamente trauma.
Questa parolina che si è già da qualche anno insinuata sempre più nelle nostre conversazioni, dei dibattitti, sui giornali, seppure spesso abbia un uso improprio e troppo generalista, dice qualcosa su questo nostro presente così confuso, confuso proprio nel senso che tutto e fuso con altro, senza distinzione, senza specificità. Noi qui invece vogliamo essere più attenti nel definire il campo d’azione e d’importanza di questa parola e di questa difficile condizione d’essere. Quella traumatica appunto.
Detto ciò, facciamo qualche precisazione importante: sono state date molte definizioni di Trauma Psicologico nel corso della storia, ma cosa si intende davvero con questo termine? Il trauma psicologico, dunque, può essere definito come una “ferita dell’anima”, come qualcosa che rompe il consueto modo di vivere e vedere il mondo e che ha un impatto negativo sulla persona coinvolta. Esistono diverse forme di esperienze potenzialmente traumatiche a cui può andare incontro una persona nel corso della vita. Le due grandi classificazioni riguardano esperienze relazionali, caratterizzate da una percezione di pericolo non oggettivamente intesa come un’umiliazione subita o delle interazioni brusche con delle persone significative durante dall’infanzia in avanti. Accanto a queste esperienze si collocano quegli eventi che portano alla morte o che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care. A questa categoria appartengono eventi di grande portata, come ad esempio disastri naturali, abusi, violenze, incidenti. Non tutte le persone che vivono un’esperienza traumatica reagiscono allo stesso modo e non c’è un modo giusto o sbagliato quando si soffre. Bisognerebbe ricordarsi che ognuno fa quello che può, non sempre ciò che è meglio né tantomeno giusto. Quindi il compito di chi sta accanto a persone segnate da esperienze di perdita e smarrimento, chiusura o rabbia, dovrebbe essere sempre rispettoso. Questo ancor più se questo riguarda i bambini. Molti, troppi sono purtroppo i casi di cronaca in cui ci sono stati maltrattamenti negli asili o con le figure di riferimento inadeguate. Le risposte subito dopo uno di questi eventi possono essere moltissime e variare dal completo recupero e il ritorno ad una vita normale in un breve periodo di tempo, fino alle reazioni più gravi, quelle che impediscono alla persona di continuare a vivere la propria vita come prima dell’evento traumatico. I numeri ci dicono che il riconoscimento di questa condizione è in forte crescita anche in Italia e non solo per quelle professioni ad alto rischio come forze dell’ordine, vigili del fuoco, militari. In questo caso il fattore di rischio, cioè l’esposizione ripetuta e prolungata a stress multipli, porta spesso a sindromi diagnosticabili come disturbo post-traumatico. Anche molti film ne hanno parlato più o meno da sempre, soprattutto per mano americana, uno per tutti, tra i più recenti quello bellissimo di Eastwood American sniper.
Cosa quindi fare in casi traumatici? Regola numero 1 occuparsene, sfatiamo il falso mito del “passerà” o “il tempo guarisce”, il tempo non aiuta di per sé alla rielaborazione. Rielaborare implica un processo per il nostro cervello e la nostra anima che è difficile possa avvenire da solo. Il tempo semmai può aiutare a lenire il dolore, la sua accessibilità, questo può fare il tempo. Per tutto il resto, la buona notizia è che la psicotraumatologia internazionale e italiana ha fatto grandi passi avanti. Esistono trattamenti focali nati per aiutare la mente a guarire da quanto ci è accaduto e a lasciare il passato al passato. Tema non facile, ma possibile tutti, bambini, giovani, anziani di ogni condizione sociale.
di Stefania Resta