In questi ultimi anni le ricerche, sia di tipo etnografico che archivistico, hanno evidenziato come della persecuzione e sterminio nazifascista siano state vittime (si parla di almeno 500.000 persone morte nei campi di sterminio) moltissimi dei rom e sinti che vivevano allora in Europa: ma ancora oggi manca il riconoscimento ufficiale di quello che, nella lingua romanès, viene ricordato con i termini “Porrajmos” (grande divoramento”) e “Samudaripen” (“tutti morti”).
Nella legge n. 211 del 2000, che istituisce in Italia la Giornata della Memoria, non vi è infatti alcun riferimento alla persecuzione che fu agita nei confronti dei rom e i sinti durante il fascismo.
Gli studi che hanno permesso a questa memoria ignorata di venire alla luce sono stati iniziati da Mirella Karpati negli anni ’60 dello scorso secolo, proseguendo con le ricerche d’archivio di Giovanna Bousier. In questi ultimi anni si sono rivelate fondamentali le indagini di Rosa Corbelletto e Paola Trevisan, ma anche gli studi condotti da appassionati a livello locale (si può infatti osservare, come esempio, che le vicende legate all’esistenza del campo di concentramento di Tossicia, che rappresentò uno dei luoghi di detenzione degli zingari (in questo articolo la parola zingaro verrà usata perché compare nei documenti dell’epoca. I diretti interessati spesso, dato l’uso denigratorio della parola, non vi si riconoscono e usano etnomini quali rom, sinti, kalé, ecc.) più importanti in Italia, sono venute alla luce anche grazie al lavoro effettuato da Francesco Tanzj, professore di storia di liceo, che ha realizzato le ricerche insieme ai suoi studenti). Nel 2013, grazie ai finanziamenti dell’Unione europea, il progetto Memors ha potuto realizzare sia il primo museo virtuale del Porrajmos ( www.porrajmos.it) che la pubblicazione del libro di Luca Bravi e Matteo Bassoli: Il Porrajmos in Italia. La persecuzione di rom e sinti durante il fascismo.
Ciò che venne agito contro gli zingari durante il regime non assunse mai la veste di leggi formulate appositamente, ma venne attuato unicamente attraverso numerose circolari, prodotte, a seconda dei casi, dal ministro degli interni (Luigi Federzoni- ministro dal 17 giugno 1924 al 6 novembre 1926, in tutti gli altri periodi del regime, la carica fu assunta da Mussolini) o dal capo della Polizia.
Dopo la Prima Guerra Mondiale era stata negata la cittadinanza italiana alla maggior parte delle persone appartenenti a quei gruppi che vivevano nelle zone nord-orientali acquisite con l’allargamento dei confini (circa 7000 persone) e che si trovarono quindi nella condizione di essere considerati “stranieri” sia in Italia che nel Regno di Jugoslavia. I primi provvedimenti furono dettati dalla volontà di impedire l’ingresso in Italia alle carovane di zingari provenienti dai confini nord-orientali e, dal 1926, il regime fascista iniziò ad agire con sempre maggior frequenza per cercare di risolvere in modo definitivo questo problema: agli uffici di frontiera venne data indicazione di “di respingere in via di massima gli zingari, anche se muniti di regolari documenti (grassetto mio) ( Tutte le circolari conservate nell’archivio centrale di Stato sono reperibili al seguente indirizzo internet: http://www.michelesarfatti.it/documenti-e-commenti/una-storia-della-normativa-antizigana-nellitalia-fascista-i-testi-delle-circolari).
L’espulsione, di cui si occupò la Divisione affari generali e riservati del Ministero dell’Interno, costituì uno degli strumenti principali della persecuzione dei rom e dei sinti prima del 1940. Dopo il controllo dei documenti e la perquisizione dei carri, le persone venivano fermate e condotte al più vicino ufficio di Ps dove veniva eseguita una serie di accertamenti per verificare eventuali precedenti penali. Il fermo necessario all’identificazione poteva richiedere periodi anche lunghi, durante i quali le persone dovevano restare in carcere poiché tutti erano considerati “stranieri sospetti per l’ordine pubblico”. Il provvedimento di espulsione veniva messo in atto solo dopo che i colpiti avevano scontato le possibili pene per reati commessi in precedenza o per irregolarità venute alla luce durante gli interrogatori. Per evitare che, una volta giunti al confine, gli zingari potessero essere respinti anche dalle guardie jugoslave fu imposto loro molto spesso di attraversarlo clandestinamente: i gruppi venivano accompagnati, sotto scorta armata e durante la notte, obbligando tutti, anziani, malati, bambini, donne incinte, ad attraversare zone impervie, spesso in condizioni meteorologiche sfavorevoli. Rosa Corbelletto ricorda, fra le tante persone che dovettero subire questo provvedimento, Giuseppa Mayer che, a causa dell’età (66 anni) e delle cattive condizioni di salute riuscì ad arrivare solo a stento alla frazione di Colle Pietro, dove, non più in grado di proseguire, fu depositata nella caserma della Milizia; il giorno dopo venne comunque prelevata dai militari e trascinata oltre confine dove venne abbandonata a se stessa.
Una testimonianza molto significativa, che si può ritrovare sul sito del progetto Memors, è quella di Silvana Gabrieli, una sinti la cui famiglia aveva radici trentine e un cognome austriaco (Herzemberg). La donna ha raccontato come i suoi parenti, dopo l’espulsione dall’Italia, furono arrestati in Austria, condotti in un campo di sterminio e bruciati vivi dopo aver dovuto scavare le loro fossa davanti alle SS: è quindi legittimo supporre che molti di quelli che furono respinti alla frontiera siano stati in seguito imprigionati e condotti allo sterminio nei campi nazisti.
Il provvedimento del confino in piccoli comuni della Sardegna e Basilicata fu frequentemente adottato nei confronti di quei rom e sinti che già vivevano in Italia e che si stima fossero tra le 25000/30000 unità.
I trasferimenti ebbero inizio a febbraio del 1938 e proseguirono per due anni, fino all’allontanamento dalla zona del confine orientale dell’Italia di tutti gli zingari che erano stati censiti. Le condizioni in cui vivevano i confinati erano molto dure: una vicenda che può essere considerata come simbolo delle sofferenze e ingiustizie patite da tutte e tutti è quella Rosa Raidich “zingara pregiudicata, pericolosa per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Rosa, già processata per furto, prostituzione, accattonaggio, durante questo periodo fu spesso privata del misero sussidio a cui comunque aveva diritto e costretta, per poter sopravvivere con i suoi bambini, a perpetrare quei reati che l’avevano portata alla condanna e al confino: la sua storia rappresenta in modo emblematico quella di un popolo che, allora come oggi, non riuscì a trovare rispetto e accoglienza ma solo discriminazione e violenza.
Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, fu emessa l’11 settembre 1940 una circolare in cui si ordinava di rastrellare e concentrare, in località ritenute idonee, tutti gli zingari che erano ancora liberi nel territorio.
In breve tempo, le carceri italiane si riempirono di rom e sinti, che vennero in seguito smistati verso i campi di prigionia. Le misure di internamento e deportazione aumentarono e divennero più intransigenti dopo l’occupazione, nel 1941, della Jugoslavia, poiché molti zingari che vivevano nelle zone occupate dai tedeschi, nel tentativo di salvarsi, varcarono i confini e cercarono rifugio in Italia.
Rom e sinti furono rastrellati in modo particolare nelle province di Verona, Bologna, Modena, Ferrara, Genova, Chieti, Teramo e Campobasso; dal 1942 si aggiunsero quelli che venivano imprigionati nelle zone della Slovenia occupata. È stata documentata la presenza di prigionieri zingari nei campi di molte località, luoghi in cui le condizioni di vita dei prigionieri erano caratterizzate da sovraffollamento, fame, gravi carenze igieniche.
A Tossicia, piccolo comune del teramano, furono obbligate a vivere 115 persone (vi nacquero anche 9 bambini), ammassate in edifici fatiscenti, alcune si trovarono nella condizione, per mancanza di letti, di dover dormire per terra. Il cibo era poco e razionato: il sussidio stabilito dal governo italiano non poteva bastare per sfamare tutti gli internati, le donne più anziane si trovarono così costrette a mendicare nei paesi vicini. L’ufficiale sanitario e il direttore del campo lo descrissero con queste parole: Il numero dei componenti della colonia di Tossicia supera il limite deplorato…Mentre prima il campo era composto solo da civili ordinati, oggi sono degli Zingari nudi che per la loro mentalità non sembrano europei e nemmeno del nostro tempo. Ma maggiormente sono le donne che nella loro incorreggibile ignoranza amano l’incomodità con i loro numerosi figli. Ma la cosa che più mi preoccupa è l’infunzionalità dei servizi igienici. (G. BOURSIER, Gli zingari nell’Italia fascista)
Dalla fine del mese di novembre del 1940, circa ottanta cittadini italiani, appartenenti a famiglie sinte che vivevano nella pianura Padana ormai da centinaia di anni, furono rastrellati nella provincia di Modena e imprigionati nel campo di Prignano, piccolo comune in provincia di Modena: proprio il Podestà dichiarava, in una delle sue ultime relazioni al Prefetto, che gli zingari, a causa delle disastrose condizioni di abbandono in cui si trovavano a vivere nel campo di concentramento, erano costretti a fuggire per poter sopravvivere.
Dopo la caduta del regime fascista, nonostante la circolare emessa il 27 luglio 1943 decretasse la scarcerazione dei civili italiani che si trovavano internati o confinati, non vi furono mutamenti nella sorte degli zingari: per quelli che si trovavano nell’Italia meridionale fu l’armistizio (8 settembre 1943) a segnare la fine della prigionia. Destino molto diverso dovettero subire coloro che erano internati nell’Italia occupata dai tedeschi: è noto, anche grazie alle testimonianze dei sopravvissuti raccolte in particolare da Bravi e Bassoli nel loro libro sul Porrajmos, che tra il ‘43 e il ‘45 vi furono deportazioni di zingari che si trovavano nei campi di concentramento italiani verso i lager nazifascisti.
Molti fattori hanno resa difficoltosa la ricerca di questa pagina di storia: l’impossibilità di rinvenire il relativo materiale documentale in Austria e Germania, la difficoltà di tracciare la sorte dei deportati rom e sinti, anche a causa dell’abitudine di modificare cognomi e dati anagrafici da parte di queste minoranze. Senza dimenticare che tutti quelli che furono arrestati in territorio italiano in quanto zingari, vennero invece registrati, una volta arrivati nei lager, come asociali o vagabondi. È plausibile sostenere che questo sia avvenuto perché dopo il 2 agosto del 1944, data in cui le persone recluse nello Zigeunerlager (il settore del campo di Auschwitz-Birkenau dove erano stati imprigionati gli zingari del Reich) furono sterminate, i nazisti non registrarono più i prigionieri rom e sinti come zingari col chiaro intento di voler considerare definitamente chiusa la questione.
Solo in questi ultimi anni, le ricerche effettuate nell’ambito del progetto Memors hanno consentito di affiancare al materiale orale anche una certa quantità di documenti a testimonianza della presenza di rom e sinti italiani nei lager. Purtroppo, allo stato attuale, con la morte dei testimoni sopravvissuti e con l’esiguità della documentazione rinvenuta è altamente improbabile che questi studi possano giungere a definitiva ed organica conclusione, mantenendo una parte di oblio anche su un capitolo tanto doloroso della storia di questo popolo.
Le ricerche effettuate hanno comunque permesso, sfatando ancora una volta il mito degli “italiani brava gente”, di mettere in luce il fatto che nel nostro paese rom e sinti furono non solo discriminati, ma anche perseguitati: se pure l’apparato dei campi di concentramento italiani fu diverso da quello nazista, di questo nostro sistema furono comunque vittime non pericolosi criminali, ma uomini, donne e bambini inermi, la cui unica colpa era quella di essere “diversi”. Privati di qualunque diritto, sottoposti a provvedimenti di espulsione, confino, internamento nei campi (in cui molti morirono per gli stenti e le precarie condizioni igieniche e da dove tanti vennero mandati verso la morte nei campi di sterminio nazisti) furono costretti spesso a comportamenti illegali per poter sopravvivere, perpetrando e spesso amplificando quelle condotte di vita che teoricamente il regime avrebbe tanto desiderato eliminare.
Appare inoltre evidente come la non casuale negazione dello sterminio abbia di fatto favorito i meccanismi di segregazione e discriminazione di cui ancora oggi rom e sinti sono vittime nel nostro paese.
È proprio per questo motivo che si reputa doveroso richiamare alla memoria la nostra Costituzione che, negli articoli 2 e 3, facendosi garante dei diritti inviolabili degli esseri umani, riconosce quello all’uguaglianza insieme al dovere di solidarietà politica, economica e sociale.
È auspicabile che la conoscenza delle vicende storiche legate a questo popolo e la conseguente assunzione delle nostre responsabilità ci permettano di superare gli stereotipi e ci conducano a una convivenza in cui le diversità possano essere considerate valori e non limiti o ostacoli da abbattere, come purtroppo ancora oggi accade.
Di Carla Di Russo