Martina e sua figlia Emma in una foto tratta da Instagram
Martina Fuga, 50 anni, Milano, madre di Giulia, Emma e Cesare. Emma ha la sindrome di Down
“Prova a dire in tv la parola ‘negro’. Prova a usare ‘frocio’ e ‘checca’. Prova a dire ‘ebreo’ con l’obiettivo di offendere. Prova a fare un commento sessista, ti si scaglierà addosso la stampa tutta e i più impegnati attivisti della rete. Dici ‘mongoloide’ o qualsiasi altra parola della disabilità per offendere, e non accadrà proprio nulla. Si è visto al Grande Fratello Vip qualche giorno fa. Dove sono tutti?”.
“Quelli che si battono per il linguaggio corretto, quelli che reclamano i diritti, quelli che cavalcano battaglie a colpi di like e condivisioni? Ne deduco che le parole contano solo quando toccano la discriminazione di genere, di etnia o di orientamento sessuale, che l’attenzione al linguaggio discriminatorio avviene solo per certi argomenti, e infine che esiste una discriminazione di serie A e una di serie B”.
“Usare le parole della disabilità per offendere è diventata un’abitudine, ma quel che è peggio è che passa come modo di dire e ne viene continuamente sminuita la gravità. Per quanto l’abitudine faccia dimenticare il significato originario di queste parole, si tratta di termini che offendono e discriminano la categoria di persone a cui si riferiscono. La questione è importante perché inquina la nostra cultura senza che nemmeno ce ne accorgiamo”.
“Non è solo una questione linguistica, è sostanza. Si parla di inclusione a scuola e nel lavoro ma se poi il contesto culturale non è pronto e il compagno di scuola o il collega credono che quella persona sia un buono a nulla che tipo di inclusione potremo mai realizzare? Se non abbiamo un terreno fertile dove seminare, non otterremo alcun frutto. Le persone con sindrome di Down hanno lottato insieme alle loro famiglie per cambiare il mondo che le circonda e per farsi spazio nella società”.
“Il mondo è cambiato, si è evoluto, e con lui anche il linguaggio e la cultura. I nostri ragazzi vanno a scuola con soddisfazione, praticano sport, alcuni vivono da soli, il mondo del lavoro sta imparando che una persona con la sindrome di Down può portare un valore aggiunto in azienda e assumerla non è solo un atto di generosità nei confronti di una categoria fragile. Lavoriamo tanto per cambiare l’immagine delle persone con disabilità, per liberarci di pietismo o di inutili eroismi, ma se sdoganiamo termini come ‘mongoloide’, facciamo un passo indietro culturale di diversi decenni”.
Da “la Repubblica” 29 novembre 2020
COMMENTO
Ringrazio la signora Martina per questa lettera pubblicata nella rubrica di Concita De Gregorio ne “la Repubblica”.
Lettera che mi ha commosso e fatto ragionare.
Purtroppo, si pensa che certe espressioni offensive siano utilizzate solamente dalle persone meno istruite e nelle case del “Grande fratello”, purtroppo, per mia esperienza diretta, posso dire che è presente anche tra persone laureate e magari docenti d’università.
Certo non durante le lezioni, ma nelle comunicazioni non ufficiali sì, purtroppo.
Anche il famoso giornalista Marco Travaglio, durante la trasmissione Otto e Mezzo de La7.
In un confronto con ll senatore Gianrico Carofiglio, polemizza: Andate pure avanti a trattarli come mongoloidi”.
Il riferimento è agli elettori del Movimento 5 Stelle, che a parere del giornalista sarebbero trattati dal Partito Democratico come delle persone incapaci di intendere e volere.
Frase infelice come quelle che sentiamo in continuazione sul pullman o per strada.
Ma questa volta a pronunciarla è stato un giornalista e scrittore democratico, un professionista, cioè, che con le parole ci lavora e che dovrebbe essere in grado di valutarne l’effetto.
“Mongoloide” è anche una espressione molto utilizzata tra i ragazzi.
Evidentemente famiglia e scuola non fanno fino in fondo il loro dovere.
È sempre la stessa storia: la famiglia delega la scuola e la scuola delega la famiglia, mai che si riesca a trovare un giusto e sacro equilibrio.
“Hai vinto il mongolino d’oro” l’ho sentito anche da personaggi maschili e femminili di sinistra impegnati in politica o dai giovani delle parrocchie.
Che dolore!
Carlo Levi ha scritto “Le parole sono pietre”, mi permetto di aggiungere che spesso le parole fanno più male delle pietre stesse.
La botta di una pietra passa dopo un po’ di tempo, la botta che lascia una ingiuria può durare per sempre nel ricordo del cervello e del cuore di un bambino.
Un insegnante di sostegno mi diceva di questi ragazzi: “Persone meravigliose. Che mi hanno fatto pensare che può esistere una umanità più alta e bella. Molto più emotiva e commovente”.
di Gianni ZANIRATO