PRIMO MAGGIO: COSA RIMANE?

Ieri si è celebrata la Festa del Lavoro, o Festa dei Lavoratori, ma la domanda è: cosa rimane del festeggiato?

Un’Italia stremata dalla pandemia, che a dato il colpo di grazie ad un sistema economico già con le ossa rotte da decenni, a causa di una scellerata politica socio-economica che, da noi come in tutto il mondo occidentale, ha prodotto sacche di povertà e altre di ricchezza assoluta, con i capitali che come avvoltoi riescono a spolpare fino all’osso realtà un tempo floride.

Cosa rimane del lavoro?

E dei lavoratori?

Questi ultimi sembrano spariti dalla scena, definitivamente, come se la loro fosse una colpa indicibile: quella di essere fortunati ad avere un impiego, visto che intorno moltissimi non ne hanno…

Eppure, che società è quella che permette di avere una sterminata platea di working poor, ossia persone che seppur impiegate non riescono a campare con ciò che guadagnano, arrivando a fine mese soltanto con grossi sacrifici oppure grazie al diabolico credito al consumo, un cappio che sembra largo che piano piano si stringe intorno al collo di chi non riesce più a farne a meno.

Che paese è quello che vorrebbe la flat tax, capace di arricchire chi già ricco, per poi protestare perché i servizi pubblici, in primis quelli sanitari, sono stati abbattuti dai feroci tagli della politica.

Eppure, lo sanno tutti che sono le imposte e le tasse a finanziare lo stato sociale, quel welfare state di cui tutti ci riempiamo la bocca per poi cercare ogni scappatoia pur di non finanziarlo.

Certo, non è il lavoratore dipendente che può fare il furbetto, visto che a lui le ritenute vengono applicate alla fonte, e difficilmente potrebbe farla franca.

Sono altre le categorie che negli anni hanno fatto di tutto per non pagare quanto dovuto, magari le stesse che oggi piangono ristori non consoni al guadagnato.

Un Paese, il nostro, che andrebbe scosso dalle fondamenta, ma non per renderlo come i desiderata di Confindustria&Co., ossia ancor più amichevole verso il capitale e più feroce verso gli ultimi…

È necessario un profondo esame di coscienza, da parte di tutti, per capire come la barca si salvi soltanto se chi ha molto non possa continuare a godersi la vita quando tutto intorno a lui brucia.

E per far questo occorre ripartire dal mondo del lavoro, da coloro che in questi anni hanno visto i loro salari piegati dalla competizione, svalutati, ridotti a un pezzo di pane necessario giusto giusto a “ridargli le energie per produrre”, come direbbe Marx.

Una politica di deflazione salariale che ha ucciso l’innovazione, la ricerca, il virtuosismo, a favore di un continuo scaricabarile dove l’unica leva di competizione si è basata sulla compressione dei costi, in primis quelli del lavoro.

Ma un sistema che è costretto a far ciò per sopravvivere non può vincere contro campioni del dumping come Cina, Vietnam, Bangladesh, Romania, e tanti altri…

Fintanto che non capiremo come sia ora di smetterla di essere visti come meri consumatori, che magari passano il giorno di festa al supermercato, dimentichi che coloro che vi lavorano sono persone come loro, e non lotteremo per tornare a essere cittadini, capaci di spirito critico e iniziativa, per il nostro Paese, e per le nuove generazioni, non ci sarà speranza di un futuro migliore.

Non rassegniamoci a una Italia in mano a pochi: dal lavoro può e deve partire il nostro riscatto, perché un Paese civile e grandioso necessita delle migliore energie di tutti, senza lasciare indietro nessuno!

Marcello MINELLI

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  1. Credo che l’articolo di Marcello Minelli sia uno spunto molto importante per una discussione sul futuro del nostro paese, e non solo. La pandemia lascerà dietro di sé molte macerie di fronte agli imprenditori che spesso non sapranno che fare se non licenziare i lavoratori.
    La sinistra (divisa in molti pezzi non comunicanti) sembra non avere le idee chiare.
    Marcello ci mette di fronte alla realtà.
    Gianni ZANIRATO

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