Il titolo può suonare provocatorio, ma lo è solo fino ad un certo punto, come vedremo più avanti.
A Nichelino la lotta partì e si sviluppò a causa dell’immigrazione massiccia. Il piccolo comune diventò, in pochi anni, una specie di dormitorio operaio alle porte di Torino, abitato da una popolazione composta di un 60% di meridionali, 23% di veneti e il rimanente 17% proveniente da altre regioni.
La maggior parte degli immigrati erano giovani tra i venti e i quarant’anni; i bambini erano circa 5mila mentre i posti negli asili nido erano solo 380 e le aule delle scuole dell’obbligo erano 106 per 175 classi (i bambini dovevano abituarsi ai turni come i loro genitori nelle fabbriche). Su una popolazione attiva di 15 mila persone, 12 mila erano operai. Solo 1.700 trovarono lavoro vicino a casa (SIPEA, Viberti, LIRI, Bocca e Malandrone e in una miriade di piccole aziende) gli altri, tra cui un folto gruppo di lavoratori Fiat (5.200), erano costretti a raggiungere il posto di lavoro a Torino, Moncalieri, Rivalta, Carmagnola e Airasca. Il tempo che essi impiegano per raggiungere il posto di lavoro variava da oltre un’ora a 30 minuti. In media circa due ore al giorno solo per andare e tornare dalla fabbrica. La spesa per l’affitto dell’ alloggio portava via al 70% dei lavoratori da un terzo fino alla metà del salario, mentre il 60% di coloro che avevano acquistato l’alloggio con un mutuo, ogni mese si vedevano decurtare metà stipendio.
La scelta della Fiat di costruire a Rivalta un’altra Mirafiori, ostinandosi a voler concentrare su Torino e dintorni la produzione automobilistica, aveva accentuato le conseguenze della cronica mancanza di abitazioni. Gli immigrati meridionali e di un Nord- Est, ancora lontano dal suo boom economico, affollavano i quartieri dormitorio. In alcune zone della città questi rappresentano il 70 per cento degli abitanti. A Mirafiori oltre la metà dei dipendenti era costituita da immigrati arrivati dal Mezzogiorno negli ultimi dieci anni. E poiché nelle previsioni della Fiat era indicata una crescita del mercato dell’automobile in Italia e in Europa, che poi si rivelerà sbagliata per eccesso, i treni in arrivo dal Sud scaricavano ogni giorno a Porta Nuova altri immigrati.
A Nichelino la richiesta di aumento degli affitti da parte dei proprietari di case e l’arrivo delle prime lettere di sfratto provocarono un’energica protesta che venne raccolta e guidata: da comitati d’inquilini che si formarono nei mesi precedenti organizzati dal PCI locale e da studenti universitari soprattutto della Facoltà di Architettura.
Il 13 giugno 1969, al termine di una manifestazione contro il caro-affitti, i partecipanti (operai, studenti e soprattutto cittadini di Nichelino) entrarono nel palazzo del Municipio e lo occuparono. Decine di operai, studenti e abitanti del comune per dodici giorni consecutivi vissero in assemblea permanente, decisi a mantenere l’occupazione fino a quando il sindaco democristiano (Angelo Prato) non si fosse recato in Prefettura, assieme ad una delegazione dei comitati inquilini, per chiedere l’emanazione di un provvedimento straordinario di blocco degli affitti e degli sfratti come affermavano i due grossi striscioni posti sulla facciata del Comune: “Blocco generale degli affitti”, “Blocco generale degli sfratti”.
Dal municipio occupato partirono per Hanoi telegrammi di plauso per la costituzione del governo rivoluzionario del Sud Vietnam, per il Ministro degli Interni, che venne sollecitato a trovare in fretta una soluzione al loro problema e alla CGIL perché iniziasse una lotta radicale sulla questione degli affitti e dell’equo canone.
Persino la moderata “ La Gazzetta del Popolo”osservò: “Non basta il lavoro se poi manca la casa”.
L’emblematica lotta dei comitati inquilini di Nichelino, che si svolge contemporaneamente a quella in corso alla Fiat, ruppe l’isolamento forzato delle lotte operaie dentro i cancelli, quel “cordone sanitario” che i mezzi di comunicazione conservatoi crearono intorno ai muri degli stabilimenti. Il senso della lotta, dentro e fuori, nella fabbrica e nel luogo dove si vive il resto della giornata, cominciò a unirsi in una sintesi di ribellione verso l’intero sistema sociale e le sue regole, superando settorialità e specificità, trasformandosi in richieste di cambiamenti radicali e sostanziali.
Corso Traiano 3 luglio 1969: comincia l’“Autunno caldo”!
“Autunno caldo” è sempre stato un modo per descrivere una stagione fuori dal normale. Dal 1969 l’espressione entrò prepotentemente nel vocabolario di politici, sindacalisti, saggisti, giornali, televisioni e gente comune per indicare un periodo di tensioni sociali particolarmente forti.
L’occupazione del comune di Nichelino (dove tra gli occupanti l’esponente più in vista fu Elio Marchiaro capo dell’opposizione comunista in consiglio comunale e prossimo sindaco di Nichelino) divenne un caso nazionale e il problema degli affitti fu preso in carico dal sindacato.
Il 3 luglio i sindacati organizzarono uno sciopero generale per protestare contro gli aumenti degli affitti e il massiccio ricorso agli sfratti. Un problema che parte dalla fabbrica come luogo che l’ha creato, richiamando a Torino migliaia d’immigrati e che adesso lo subisce. La manifestazione coinvolse tutta la zona attorno alla FIAT Mirafiori.
Alla manifestazione sindacale aderirono, in modo più o meno ufficiale Lotta Continua, Potere Operaio e qualche altra frangia dell’estrema sinistra; parteciparono anche centinaia di giovani del movimento studentesco e della FGCI. Cartelli descrivevano, anticipandolo, quello che diventerà il fosso scavato tra il sindacato e partiti storici da una parte e la sinistra extraparlamentare dall’altra: «Sindacato e padrone, accordo bidone», «Tutto il potere agli operai», «Contro il padrone blocco della produzione», «Cosa vogliamo? Tutto».
I cancelli Fiat di corso Tazzoli e via Settembrini erano presidiati dalla polizia mentre nel cielo volteggiava un elicottero dei carabinieri. Altre forze dell’ordine confluirono nelle strade dei quartieri di Mirafiori. Un lancio di sassi da parte dei dimostranti provocò una prima risposta dura degli agenti. Seguì una breve tregua. Un corteo di circa 4 mila persone sembrò dirigersi verso il centro, ma cambiò subito rotta e andò verso corso Traiano: corse voce che la destinazione fosse la stazione Lingotto. La polizia lo bloccò all’altezza di via Pio VII. Il questore Guida provò a dialogare con i dimostranti, invitandoli con un megafono a sciogliersi, ma fu un vano tentativo: il vicequestore Voria e il commissario Bonsignore (nomi che entreranno nelle cronache degli scontri di quegli anni) indossarono la fascia tricolore e ordinarono la carica.
Nella mattinata di quel 3 luglio i primi scontri si segnalarono davanti ai magazzini Standa di via Nizza: un gruppo di manifestanti tentò di impedire l’ingresso alle commesse e prese di mira con lancio di sassi alcuni autobus dell’Atm. Verso le 14 il teatro degli scontri si trasferì in Corso Traiano. Un corteo non autorizzato di giovani, tra i quali si scoprirà poi che c’erano molti dimostranti arrivati da Milano, Pisa, Roma, Trento, puntò verso i cancelli di Mirafiori. Lo slogan più scandito fu «Vogliamo tutto». Questa protesta, non governata dai sindacati, si allargò fino ai prati che si aprivano dietro i cantieri delle nuove costruzioni e che divennero un campo di battaglia. L’ aria fu resa irrespirabile dai gas lacrimogeni, le auto delle forze dell’ ordine eseguirono caroselli a sirene spiegate. Si scatenò una caccia all’uomo, mentre i dimostranti si riorganizzarono in gruppi e impegnarono gli agenti con lanci di sassi e in a corpo a corpo. Da diverse finestre, gli abitanti di quelle zone lanciarono vasi contro gli agenti.
Ricordo che gli abitanti ci nascondevano nelle case e ci fornivano acqua fresca per calmare il bruciore dei gas tirati dalla polizia. Le case venivano perquisite dalla polizia per cercare manifestanti e coloro che venivano ritenuti “dimostranti” non vennero certamente accolti in modo amichevole. Arrivarono le ambulanze perché ci furono parecchi feriti tra le forze dell’ordine e tra i manifestanti, che però fecero di tutto per non finire tra i ricoverati negli ospedali. Verso le otto di sera i dimostranti erano ormai ridotti a poche centinaia e tutti chiusi in Corso Traiano. Gli scontri continuarono.
Altre dimostrazioni vengono segnalate davanti alla sede di Architettura al Valentino, in via Maroncelli, in via Nizza, piazza Bengasi e terminarono al ponte del Sangone di Nichelino dove Elio Marchiaro e altri militanti comunisti invitarono i giovani manifestanti a disperdersi e a tornare alle loro case. Il bilancio degli scontri di Corso Traiano fu pesante. I feriti furono 70, ma questo numero comprendeva soltanto i ricoverati (tra questi anche diversi “colpevoli” di essersi trovati casualmente da quelle parti). I fermati furono 160 e per 28 scatteranno gli arresti. Il giorno dopo, 4 luglio, le prime pagine dei giornali erano dedicate agli scontri di Corso Traiano. L’ Avanti! e l’Unità riferirono dei fatti di Torino mettendo l’accento sulla grande adesione allo sciopero indetto dai sindacati, ma lo inquadrarono in uno scenario che preannunciava già il dissenso tra sinistra e frange extraparlamentari. La Stampa titolò «Giornata di violenze a Torino». La Gazzetta del Popolo privilegiò la denuncia dei sindacati nei confronti di quelle che individua come «responsabilità anarchiche».
Lo storico Valerio Castronovo scriverà: «Le agitazioni operaie esplosero con una forza d’urto senza precedenti, oltre a scuotere definitivamente il sistema monocratico su cui si era fondato per più di vent’anni il mito di Valletta, misero in crisi l’organizzazione tayloristica del lavoro, la sincronia e l’elasticità della più grande catena di montaggio europea».
… e fu l“Autunno Caldo” con una nuova tipologia di operaio e con un nuovo modo d’affrontare le lotte.
L’”Autunno caldo” partì da Nichelino?
di Gianni ZANIRATO