Si stanno avvicinando le elezioni nazionali con una legge elettorale che premia le coalizioni. E in questi mesi abbiamo già visto come i vari campi stanno lavorando alla costruzione di alleanze: mettersi insieme è diventato l’imperativo obbligatorio per poter competere e poter vincere. Il per fare cosa?, come appare chiaro a tutti, è molto sullo sfondo o addirittura evanescente, dal momento che si vedono coalizioni tra soggetti che su molti problemi concreti non la pensano allo stesso modo. Questo è chiarissimo per il campo di centrodestra; ma tanti indizi lo fanno sospettare anche per il fronte del centrosinistra.
E’ un campo frantumato sicuramente anche per incompatibilità personali; ma le differenze sulle posizioni politiche e sugli aspetti programmatici sono assolutamente prevalenti e rilevanti. Per questo, il compito affidato a Piero Fassino non sembra agevole soprattutto sulla ricerca di convergenze su punti qualificanti di un programma di governo.
D’altra parte, per convincere che, presentandosi separate, le varie anime del centrosinistra sono condannate alla sconfitta non c’era bisogno di incaricare un mediatore: che separati si perde è una certezza per tutti, ma se questa è l’unica o la principale ragione per coalizzarsi (in una visione prevalentemente difensiva e di generico richiamo all’unità) non sarà sufficiente a riportare al voto un popolo di sinistra che non si è sentito più rappresentato soprattutto per le scelte politiche sul lavoro, sulla scuola, sulla previdenza, sulla politica economica, ecc. Lo abbiamo visto in molte elezioni di livello territoriale di questi ultimi anni: elezioni in città e regioni che la sinistra ha perso pur presentandosi unita, e le ultime elezioni regionali siciliane in cui si è visto che nemmeno la somma dei voti delle liste di centrosinistra avrebbe potuto scongiurare la sconfitta. La pura sommatoria e il richiamo all’unità, senza discontinuità sulle scelte politiche, non bastano a dare rappresentanza a chi si è allontanato dal voto o vota per protesta.
Due esempi per chiarire meglio:
La dignità del lavoro. La dignità della persona è legata alla libertà dal bisogno. Per questo la Repubblica democratica è fondata sul lavoro: è il lavoro che libera dal bisogno, è il lavoro che garantisce la dignità. La mancanza di lavoro, o il lavoro precario, o, peggio, la perdita del lavoro per un licenziamento senza giustificato motivo viene vissuto come un sopruso, una sopraffazione, una violenza che segna tutta la vita di un individuo. Difficile convincerlo ad andare alle urne e a votare per chi continua a decantare aumenti di posti di lavoro prevalentemente precari e a difendere normative che di fatto tolgono dignità al lavoro.
La politica dei bonus. Bonus degli 80 euro, bonus mamma, bonus bebè, bonus baby sitting e asilo nido, bonus cultura, ecc. Una vera politica fiscale, un sostegno ai consumi primari, alla natalità, alla famiglia non possono basarsi sulla erogazione estemporanea di bonus. Con gli oltre 10 miliardi del bonus fiscale sarebbe possibile una vera riforma fiscale garantendo la progressività sancita dalla Costituzione, cosa che gli 80 euro non garantiscono perché sono erogati in relazione al reddito personale senza tener conto dei carichi di famiglia. Per altro, se dovevano essere un sostegno ai consumi sarebbero dovuti andare piuttosto a provvedimenti sulla grande area della povertà. Pur non condividendolo, in questa fase di allargamento delle povertà, avrei capito meglio persino un loro utilizzo per un temporaneo reddito di cittadinanza. Ancora: Bonus mamma, bonus cultura erogati in modo indiscriminato senza riferimento al reddito né personale né familiare. Una classe politica seria dovrebbe sapere che il sostegno alla natalità e alla famiglia non può essere legato ad interventi spot, spesso temporanei (fino ad oggi la Legge di Bilancio per il 2018 non prevede il bonus natalità) e distribuiti a pioggia: una politica seria di sostegno alla famiglia usa strumenti strutturali come le detrazioni fiscali, l’assegno al nucleo familiare, ecc. che sono provvedimenti stabili, inversamente proporzionali al reddito e direttamente proporzionali al numero dei componenti della famiglia. Perché (come dice don Milani in Lettera a una professoressa) “Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”.
Per altro, forse anche chi ha pensato i bonus come strumenti di consenso, alla prova dei fatti, deve ammettere che persino quelli che usufruiscono di questi vantaggi, sentendo un lontano sapore di voto di scambio, si siano tenuti lontani dai seggi o abbiano voluto votare senza condizionamenti.
Sono solo due esempi. Per brevità tralascio la scuola, la previdenza (ad esempio, la speranza di vita non è uguale per tutti, la sopravvivenza non è indifferente al tipo e all’ambiente di lavoro di ciascuno), la sanità, l’assistenza, ecc. Ma credo di poter concludere che se la sinistra ridesse dignità al lavoro, rappresentanza alle vecchie e nuove povertà, proponendo politiche economiche strutturali che riducano la forbice delle condizioni sociali e garantiscano la progressività del carico fiscale, persino indipendentemente dall’esito del confronto tra i rappresentanti delle varie anime del centrosinistra, molti cittadini tornerebbero a votare.
Franco RIPANI