Giovanni Sabbatucci
La Stampa 04/01/2018
Se è vero che gli anniversari servono non solo a celebrare le glorie passate, ma anche a interrogarsi sui momenti bui e sulle pagine nere, allora l’Italia del 2018 non potrà fare a meno di riflettere, ottanta anni dopo, sulla vicenda più vergognosa della sua storia unitaria: la legislazione antisemita varata dal regime fascista fra l’estate e l’autunno del 1938. Un dispositivo che di colpo, e senza apparente motivo, trasformava i circa 47.000 ebrei italiani in cittadini di serie B, negando loro, fra l’altro, l’accesso alle cariche pubbliche e all’insegnamento, limitandone le attività economiche e vietando i matrimoni misti.
I fatti sono stati largamente studiati, a partire dall’opera fondamentale di Renzo De Felice (Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo ) pubblicata nel lontano 1960. E le responsabilità sono ben delineate, soprattutto, e ovviamente, per quel che riguarda il ruolo di Mussolini: nessuno studioso serio oggi crede più alla leggenda – che pure ancora circola nell’opinione popolare – di un duce costretto alla scelta antisemita dalle pressioni (che non vi furono) del suo alleato Hitler. E nessuno può pensare che a spingerlo sulla via del razzismo siano state le sollecitazioni di pochi pseudo-scienziati o di giornalisti in cerca di notorietà.
Il tema che ancora intriga, e che sollecita ulteriori riflessioni, riguarda piuttosto le reazioni, o meglio le mancate reazioni, a misure così radicali e divisive da parte di una società civile già assuefatta all’autoritarismo fascista.
Perché non vi furono, salvo rare eccezioni, pubbliche prese di distanza negli ambienti dell’alta cultura? Perché tanti professori non si fecero scrupolo di occupare le cattedre lasciate vacanti dai loro colleghi «dispensati dal servizio»? Perché i senatori di nomina regia, e in quanto tali inamovibili, rimasero in silenzio nella quasi totalità? Perché il tema trovò così poco spazio nella letteratura dell’epoca, compresi gli scritti (epistolari e diari) non destinati alla pubblicazione? Perché molti uomini di Chiesa accettarono la discriminazione, limitandosi tutt’al più a criticarne le motivazioni razziali e areligiose? Perché non pochi imprenditori e commercianti approfittarono della condizione di minorità degli israeliti per liberarsi di qualche concorrente? Perché nemmeno nei ceti popolari si registrarono proteste, magari silenziose, rispetto a quanto stava accadendo?
Certo nell’Italia fascista esprimere dissenso, anche in forme contenute, poteva comportare un prezzo, in termini di lavoro e di carriera. Ma, nella maggior parte dei casi, non risulta che si rischiasse la vita.
La versione consolatoria
In realtà, sull’argomento ha a lungo prevalso, e prevale ancora, una versione consolatoria e in fondo autoassolutoria. Le leggi razziali, si dice, non furono accompagnate da manifestazioni di fanatismo o di consenso popolare. Gli italiani, al contrario, le accolsero con distacco e con qualche perplessità. Ma non è detto che questa sia una scusante valida. Proprio perché difficilmente comprensibile ed estranea alla cultura politica e giuridica italiana (il razzismo coloniale era cosa recente e non certo una peculiarità nazionale), la legislazione razziale avrebbe dovuto suscitare un rifiuto più netto e, nei limiti del possibile, più esplicito. Se questo non avvenne, lo si dovette soprattutto a una diffusa insensibilità ai temi delle libertà individuali e dello Stato di diritto, anche di fronte a norme in evidente contrasto con lo Statuto, che voleva i cittadini uguali davanti alla legge.
Diciamoci la verità: quella degli italiani nel tempo della discriminazione razziale fu – sempre fatte le dovute eccezioni – una storia di meschinità, di egoismi, di tradimenti: nel migliore dei casi, di superficialità e di sottovalutazioni. Venne però il momento in cui quella storia si tramutò in tragedia: con l’occupazione nazista dell’Italia centro-settentrionale, con la nascita della Repubblica Sociale e soprattutto con la razzia nel ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, la discriminazione diventò persecuzione aperta. E le leggi razziali del ’38 diventarono premessa e fattore coadiuvante della deportazione e dello sterminio di 6800 ebrei italiani.
È vero. Come è vero che non mancarono in questa fase le delazioni, le consegne ai carnefici, le persecuzioni in proprio operate dagli uomini di Salò. E la caccia agli ebrei sarebbe certo stata più difficile senza gli elenchi puntigliosamente stilati, proprio in ossequio alle leggi razziali, dalla burocrazia dello Stato fascista.
Non solo delazioni
Ma è anche vero che la grande maggioranza degli ebrei italiani si salvò grazie all’aiuto di altri italiani, magari gli stessi che pochi anni prima non si erano dati troppa pena per il macroscopico sopruso perpetrato a danno degli israeliti. Fondamentale fu l’intervento della Chiesa che, soprattutto a Roma nel «lungo inverno» 1943-44, diede ampio asilo in chiese e conventi a chi fuggiva dalla persecuzione. Ma moltissimi furono i comuni cittadini che nascosero parenti, amici e conoscenti nelle loro case, spesso fornendoli di documenti falsi, pur sapendo di andare incontro a rischi (questa volta sì) davvero mortali. Come se l’entità del pericolo favorisse, anziché scoraggiare, i comportamenti virtuosi di tanti eroi per caso.
Si potrebbe dunque concludere questa riflessione con una nota di ottimismo. Se non fosse per una coda che ci riporta all’inizio della storia. Una volta finita la guerra e caduto il fascismo, l’amministrazione dello Stato democratico si mostrò poco generosa, e soprattutto poco efficiente, quando si trattò di reintegrare ai loro posti le vittime della discriminazione e di risarcirle dei danni subiti. Come dire che, passata la tempesta, molti italiani trovarono naturale ricadere nei vecchi vizi burocratici e in quelle pigrizie mentali che avevano impedito loro di cogliere, nel 1938, i segni della tragedia incombente.
Articolo proposto da Giovanni QUARTARONE
Riporto quanto ho scritto su questo giornale poche settimana fa:
PERCHE’ NON SONO D’ACCORDO CHE IL CORPO DELL’EX RE VITTORIO EMANUELE III RITORNI IN ITALIA
Elenco brevemente i motivi che mi fanno dire che “Sciaboletta” (soprannome che il popolo gli assegnò perché portava una spadina piccola, vista la sua statura) riposi il proprio corpo in Italia.
1)1915. Prima Guerra Mondiale. L’Austria è disponibile a fare ampie concessioni territoriali all’ Italia purchè non scenda in guerra. Il re non accetta regali (sarebbe cosa poco nobile farsi regalare annessioni senza neppure qualche decina di migliaia di morti) così otterrà quasi le stesse cose, ma con 700mila morti e oltre un milione tra feriti ed invalidi.
2) 1922. Cede il potere a Mussolini senza cercare di fermare la cosiddetta “Marcia su Roma”.
3) 1935. Accetta di conquistare l’Abissinia anche con l’uso dei gas (vietati dalla convenzione di Ginevra che anche l’Italia aveva firmato). Vengono massacrati dai soldati italiani migliaia di combattenti abissini e di donne e bambini.
4) 1938. Firma le leggi razziali
5) 1940. Accetta l’entrata in guerra dell’Italia fascista accanto alla Germania nazista. All’ Italia costerà oltre 400 mila morti.
6) 1943. Dopo lo sbarco americano in Italia fugge vigliaccamente da Roma lasciando il nostro paese in balìa della ferocia nazista.
Per questi 6 motivi ritengo offensivo che Vittorio Emanuele III venga seppellito in Italia.
Non si tratta di mancanza di umanità di fronte ad un morto. Lui non si è mai pentito del proprio operato e questa squallida figura è la causa (condivisa con altri, certamente) della morte di centinaia di migliaia di italiani e africani.
Ritengo non abbia diritto al perdono, neppure dopo decine di anni. Almeno del mio.
Gianni Zanirato